Dott. Mauro Fantinato
Martini è artista che impone alla sua ricerca pittorica una continua e costante riflessione. Sul soggetto e sulla tecnica. Con estrema calma posa i tempi e gli spazi nello stesso istante in cui prorompe in novità: ne assumono prova i due filoni pittorici a cui attualmente si dedica e che per tecniche ed impatto estetico parrebbero contrastanti se non addirittura escludersi quando, invece, attraverso una lettura più approfondita, attestano stretti legami ad sensum nel nucleo tematico: interni di vecchie fabbriche in disuso. Proposte da una parte “classicamente” in acrilico e dall’altra riformulate con tecnica vettoriale al computer dentro una storia di fantascienza, esprimono un particolare messaggio in accordo ad una profonda indagine di forme e cromie.
Si analizzi la produzione in acrilico per la quale nulla viene assegnato al caso. L’artista prende avvio da una foto per rielaborala con occhio e cuore, spostando e riformulando le geometrie in una ulteriore perfezione, aprendo varchi sulle pareti, modulando i diversi piani cromatici, cartografando le prospettive in piani impercettibilmente diversi. Non di semplice traduzione pittorica, insomma, si deve trattare: proprio come nei vedutisti classici l’occhio e il cuore prevalgono sulla ragione matematico-geometrica. Il risultato è caricato di evocativa sospensione mentre una malinconica precarietà si eleva in stasi temporale. Dove i muri scrostati, gli imballi abbandonati, i cavi penzolanti, i profili smangiati, la miseria della sporcizia e del degrado avvincono e per la fine poetica del frammento e per l’ottima resa estetica alla cui soluzione ha atteso l’appropriata risposta dei colori alla topografia geometrica: pennellate lente e certosine dovute sulle strutture architettoniche si uniscono a vibranti tâches scaricate sulle zone atmosferiche e di passaggio fino ad conquistare un armonico tessuto pittorico.
Banale e pericoloso, però, risulterebbe chiudere queste opere nei termini di semplici atti di poetica. Tutt’altro. Martini non mira solo a coinvolgere emotivamente. Piuttosto, a cavallo proprio di quella poetica dell’abbandono tanto studiata, persegue un mirato messaggio di lettura sociale. Quelle fabbriche, ora serrate, erano i luoghi di lavoro di tanti uomini e donne. Erano il progetto di qualcuno e la quotidianità per altri. Abbracciavano rumori e parole, teatri di fatiche e stanchezze generavano, però, anche soddisfazioni e gratificazioni. Adesso, invece, sono luoghi soli. E, grazie all’arte di Martini, lenta ed inesorabile salgono la denuncia della disoccupazione, il silenzio dell’addio, la morte di una vita lavorativa, il disincanto dell’insuccesso, la sconfitta di un fallimento, la ricerca di un’altra ragione di vita… E dunque dal recupero archeologico venato di sentimento, come in una sorta di manifesto, Martini ci conduce ad un programmatico invito alla riflessione sui temi del lavoro per sollecitarci ad elaborare soluzioni, tra le quali non ultima quella ai fini igienico-sanitari e di salute pubblica.
In questa ottica l’artista dipinge portoni e finestre e lucernari aperti all’esterno, anche laddove in realtà non erano. E luce ed ossigeno invadono gli interni e si ammantano di simbolica rilevanza: esiste allora la possibilità di uscire da quel buio inoperoso e da quella stasi d’impotenza, esiste allora la speranza di un ideale chiarore metafisico (caratteristica, questa, che gemmata in nuce nel quadro andrebbe poi approfondita dalla critica), esiste insomma la volontà di un ottimistico ridisegno delle prospettive future.
E proprio sul futuro l’artista thienese scommette nella seconda tipologia pittorica, sia da un punto di vista tecnico che tematico giacché se da un lato lavora in digitale il consueto tema dall’altro questo viene spinto ad ulteriori importanti evoluzioni. Questa scelta, che a primo impatto provoca una sorta di misunderstanding nel pubblico, in realtà è stata bilanciata e frequentata lungamente sull’esigenza di un aggiornamento alla digitalizzazione di questi nostri tempi attuali. Con la conseguente valutazione di una visione della pittura come di una attività non più o non solo ancorata ai tradizionali e romantici pennello e tela. In questa modernità – pare dirci Martini- se non vogliamo perderci dobbiamo essere elettrici, meglio telematici, meglio ancora digitali. Quantomeno confrontarci, sovvertendo anchilosate categorie di giudizio in genere vincolate all’epidermico compiacimento. Del resto la stessa pittura si accusa di non corrispondere più alla realtà e al mondo attuali. Dai movimenti aniconici al primitivismo, all’art brut, all’espressionismo astratto e via dicendo, osserviamo quanti e quali tentativi siano stati avviati nella direzione di un’arte socialmente più incisiva e militante.
Agendo con un programma informatico Martini, da par suo, crea immagini di interni di fabbrica da stampare su supporti in alluminio. Il mouse sostituisce il pennello e con questo dipinge e colora. Si realizza una sostituzione tecnica nell’ambito della quale però non ricade la rielaborazione computerizzata del fotoritocco, quand’anche questa comunque non sarebbe stata denigratoria. Meglio, la realtà che ne risulta assume declinazioni prospettiche volutamente in/coerenti ed in dis/accordo al nostro pensiero visivo e di visione. Perciò tocca a noi mutare lo sguardo ed arrivare a comprendere una teorica ed estetica bellezza le cui tonalità lucide e fredde supportano un messaggio immediato ed a tutti comprensibile, oltre il mito desueto del genio romantico, elitario e solitario. Martini, pertanto, ci pungola, ci sfida a seguirlo in questi territori non ancora del tutto esplorati entro cui vengono richiamati dalla pittura e dall’arte diversi ambiti disciplinari come ad esempio l’informatica e l’elettronica.
Certo, si può profilare il rischio di invischiarsi in quella che Pancotto definisce la “Babele linguistica” della quale partecipa tanta parte degli artisti contemporanei a causa di una loro sperimentazione senza fine e talvolta senza logica. Ma Martini prosegue dritto e programmatico. Lungo il suo tema viene azzerata la precedente nuance atmosferica a favore di ambienti asettici, freddi, fermi, impostati su assonometrie trimetriche. Compaiono uomini in tenuta da lavoro sempre iterati nella medesima posa robotica e alle spalle di questi, lungo le pareti, scivolano in schiera gli “space invaders”, sorta di alieni da videogioco, a colpire la nostra esistenza. Si allenta l’allettamento coloristico, si intensifica quello della veicolazione del messaggio.
Lo stesso Martini scrive: “Adesso è tutto digitale e questo è quello che rimane delle nostre aziende, dove l’uomo/persona/operaio non è nemmeno lui più reale ma è digitale… è pixellato. […] Negli anni ‘80 i videogiochi hanno iniziato la loro conquista dell’umanità. Ho scelto il classico di quei videogiochi riconducendoli a “Space Invaders” (appositamente ridisegnati in vettoriale) alla conquista dell’uomo e di questi fabbricati ormai vuoti.” Tra i pilastri in veste di lucernari e di finestroni il pittore digitale inserisce alcuni vinili che specchiano il nostro ritratto a memento della nostra condizione personale, viva e concreta, reale. Sempre Martini spiega: “È tutto irreale? No… gli attacchi hanno conquistato questi luoghi fino a poco tempo fa impregnati di lavoro e di persone […] è più reale di quello che si pensi. Al di là delle porte o finestre contraddistinte da un’applicazione con vinili-specchio si trova la realtà visibile, positiva o negativa che essa sia… Chi osserva l’opera ci si può specchiare…” E gli attacchi sono provati sulla stampa da abrasioni di acido localizzate secondo il caso che, a differenza della produzione ad acrilico, interviene e ne caratterizza il soggetto.
Avveniristiche tracce di invasori alieni, tali colature fuoriescono dal concetto/cornice/limite del fantascientifico “a far intendere che si deve prestare attenzione… gli attacchi possono uscire da quello che per il visitatore potrebbe essere irreale…” come ancora sottolinea lo stesso artista.
È dunque una storia, quella che Martini ci racconta, una sorta di romanzo di fantascienza dalla forte valenza sociale che ci mette in guardia dalla silenziosa e continua invasione del disumano. Contro il quale occorre armarsi per tempo senza ripiegare in personalismi e/o autobiografici monologhi, così come invece -ed è sempre Pancotto a segnalarlo- prediligono tantissimi artisti contemporanei forse perché disorientati dalle mutazioni in atto dentro e fuori dal sistema sociale o forse perché consapevoli di non essere tecnicamente attrezzati.
Martini, invece, con serietà e costanza protrae un precedente discorso di verità superando il rischio di non offrire lo stesso appeal dell’altra produzione, pur di alto profilo, ma nella consapevolezza che occorre affrontare l’instabile trasformazione delle prospettive che prima di essere tecnica (da quella rinascimentale a questa trimetrica) è mentale e sentimentale perché vive fin dentro il midollo del mondo e di questo assume le mutevoli forme.
Fantinato Mauro, Sant’Eulalia 18/09/2014